
Gavassismi
IL CANNOCCHIALE E LO SCALPELLO - La prefazione di S. Motta a "GAVASSISMI", la prima raccolta di poesie di Lorenzo Gavassino, studente del Liceo G.B Grassi di Saronno:
Uscì nel 1654 a Torino in forma non controllata dall’autore, prima che egli stesso ne desse alle stampe, sei anni dopo, la versione definitiva, un’opera assai singolare, un trattato di retorica il cui titolo è già da solo un esercizio di stile: Il cannocchiale aristotelico, del gesuita Emanuele Tesauro. Dico del titolo poiché coniuga in maniera ossimorica il più ingegnoso e rappresentativo strumento della scienza moderna con il richiamo a quanto di più classico e conservatore esistesse allora in materia di teoria retorica, cioè l’aristotelismo poetico. Il sottotitolo che si legge nel frontespizio spiega il contenuto dell’opera: «Idea dell’arguta e ingeniosa elocuzione che serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria e simbolica esaminata co’ principii del divino Aristotele», vale a dire un trattato che suggerisca come organizzare l’elocuzione, l’espressione linguistica delle idee trovate nella invenzione. Perché sia efficace, l’elocuzione dovrà essere arguta e ingeniosa, ovvero vivace e piacevole in quanto generata da grande intelligenza inventiva. Per questo Tesauro fa tesoro (si noti il bisticcio!) di tutto l’arsenale retorico sperimentato (e portato fino a eccessi talora insopportabili) dal barocco: metafore, ossimori, metonimie, paronomasie, assonanze, rimandi inter-intra-extratestuali, chiasmi, allegorie, grecismi, solecismi… un po’ come se la bravura di un artigiano si dovesse giudicare dal numero di attrezzi che egli porta nella sua cassetta. Di norma la bravura, come l’eleganza, è understatement («sprezzatura», dirò più volentieri citando Baldassar Castiglione).
In più di un’occasione, sia quando si slanciano nell’empireo pulsante (Pulsar), sia quando si inoltrano nella giungla iniziatica della filosofia indiana, i componimenti raccolti in questo libretto appaiono spiazzanti, dilatati, allungati come un cannocchiale cui bisogna fare abitudine. Quando li lessi per la prima volta, per conto mio e in silenzio, abbozzai più di un suggerimento (vogliamo dire una critica benevola?) al loro autore, convinto che occorresse sciogliere più di un passaggio concettoso, aggiustare le ottiche di questo cannocchiale, reindirizzarne il puntamento e accorciarne il tiro, uscire dalle gabbie della rima e del metro per favorire anzitutto la chiarezza. Poi Lorenzo – evidentemente scocciato dalla mia miopia – ne citò, a braccio, alcuni brani, e sentirli recitare ad alta voce dava loro tutt’altro aspetto.
Capisco che, nelle intenzioni dell’autore, il dilatarsi dei versi e l’allungarsi dello sguardo fin quasi alla vertigine dei riferimenti cólti e delle arguzie di stile è necessario per preparare il momento più alto della climax che è, insieme, anche il più spiazzante e risolutivo: i distici finali e, a volte, anche solo l’ultimo verso di molte di queste poesie sono i momenti più belli della raccolta. È un po’ come chiudere il cannocchiale, fare rientrare in fretta i diversi segmenti uno sull’altro (anche se, a onor del vero, il cannocchiale galileiano era un pezzo unico…) con una manata di volta in volta nervosa, rabbiosa, stanca, ironica, sprezzante, rassegnata o finalmente serena: dipende dal frutto dell’osservazione. Dipende dall’andamento della poesia.
Diceva Tesauro che l’ingegnosa elocuzione serviva anche all’arte lapidaria, e la scrittura ha molto a che vedere con la scultura.
Nel proemio al Furioso anche Ariosto invoca la sua particolare “musa”, che non ha nulla di olimpico e, anzi, è molto terrena (si chiamava Alessandra Benucci) e confessa che il proprio «ingegno» è come «limato ad or ad or» dal pensiero di lei. Mi piace ricordare questa immagine della lima perché ogni poesia nasce da una musa e ogni musa, mentre ispira, “lima”, consuma. Poi, per far piacere a lei (e magari anche alle convenzioni di una certa estetica della letteratura), chi scrive si mette a “limare” il proprio lavoro, cesellandolo fino alla presunta perfezione formale e semantica finché, finalmente, non subentrano la rabbia e l’istinto, e allora si abbandona la lima e si prende lo scalpello, per un colpo deciso quasi alla cieca: l’ultimo. Il più bello.
Stefano Motta